Eleonora Carinci, amica e collega di Anna Rita Simeone, ha scritto in suo ricordo un pezzo che parla di noi tutte.
«Sono un po’ di anni che ce lo diciamo tra noi “superstiti” dei primi anni del Laboratorio. Ci diciamo che dovremmo raccontare di te, di quell’Anna Rita – scritto staccato – che torna nel nostro sito del Laboratorio, nelle locandine, nelle pubblicazioni, ma che per molte è solo un nome muto. Un nome invisibile che si tende a scrivere sbagliato, e che non sempre inseriamo quando parliamo del Laboratorio “Sguardi sulle differenze”. Sembra che alla fine tu sia riuscita nell’impresa di cancellarti. Di trasformare la tua voce in silenzio. Il tuo corpo in aria. Sembra che alla fine tu sia riuscita a diventare un angelo. Un essere etereo, sempre presente, ma muto.
E invece no, perché tu invisibile non eri e non volevi esserlo, e avevi molto da dire, anche se, la crudele ironia del destino, ti ha portata via proprio perché qualcuno non ti ha vista. Sei ancora viva nei ricordi di chi ti ha conosciuta, ed è ancora aperta la ferita di quel futuro spezzato. Credo di avere ancora il tuo numero di telefono nella rubrica del mio cellulare, nonostante i mille cambi e perdite di dati e messaggi, e mi ostino a non cancellarlo. Non tutte abbiamo retto. Il Laboratorio ha subito una scossa forte, fortissima e ci ha messo un po’ a trovare un nuovo equilibrio. Forse è arrivato il momento. Forse è scattato qualcosa. Forse è perché è tempo di bilanci, non lo so. Ma forse è ora di provare a raccontarti, prima che i ricordi si trasformino troppo, che la persona diventi un’icona.
Quando, qualche mese fa, è apparso sul gruppo Facebook degli italiani a Cambridge (sic) un annuncio per l’affitto di una casa vacanze a Gaeta inserito da una ragazza che portava il tuo cognome non ho potuto fare a meno di scriverle due righe. Un pensiero. Nulla di più. Era effettivamente una tua parente, troppo piccola, all’epoca, per ricordarsi di te. Ho mandato i miei saluti a tua madre. Non so se le sono stati effettivamente recapitati. Non la sento da poco dopo il tuo funerale, non ho più avuto il coraggio, perché in quel momento dovevo salvaguardare anche me stessa. Ma procediamo con ordine.
Ricordo ancora la prima volta che ho scambiato qualche parola con te, nel corridoio del terzo piano (che ora chiamano quarto piano) della facoltà di lettere della Sapienza, dal lato opposto rispetto a quello del corridoio dove si trovava lo studio C, luogo che avrebbe accolto tanti incontri il mercoledì mattina, quando riceveva “la Sapegno”, che sarebbe diventata la nostra comune relatrice di tesi. Ci eravamo già incrociate, ma senza interagire granché, alle sue lezioni sulla letteratura del Rinascimento, un corso, che probabilmente mi ha cambiato la vita, ma questa è un’altra storia. Non so se fossimo lì per un esame o per parlare con qualche professore. Non lo ricordo. Eri una ragazza magra, ma non ancora trasparente, in procinto di partire per un Erasmus in Germania. Io ero una ragazza diventata magra che avrebbe poi deciso di non diventare trasparente. Ho ricollegato più tardi, quando in prospettiva del secondo anno del laboratorio, Serena ci disse che una sua studentessa che era in Erasmus, ma che sarebbe tornata di lì a poco, sarebbe intervenuta in un incontro del Laboratorio in cui si sarebbe discusso del film di Jane Campion Lezioni di piano. All’epoca i programmi erano decisi “dall’alto”, noi “giovani” eravamo meno coinvolte e probabilmente anche meno intraprendenti di quelle che sono “giovani” oggi, ma anche il Laboratorio era giovane e stava, non senza problemi, assumendo la sua fisionomia all’interno dell’università. Ricordo ancora quando ti ho incontrata la prima volta dopo l’Erasmus, stavolta nel lato “abituale” del corridoio del terzo piano. Ricordo con un po’ di sconcerto le tue braccia sottili, le tue ossa in vista, ricordo poi il bellissimo intervento che facesti a quell’incontro del Laboratorio. Nel frattempo noi “giovani” del laboratorio avevamo iniziato a incontrarci per leggere insieme i testi, ma anche, soprattutto, per parlare di noi».
«Mi sono resa conto che se la parola tace ‘la donna’, è perché il suo corpo parla di lei e per lei, anche se con lei spesso mai, e nel mio caso specifico ho voluto ridimensionare un corpo che parlava troppo»
«Ti sei unita al gruppetto che si era formato e da lì è iniziata una maggiore frequentazione. Era difficile raggiungerti, entrare in sintonia, trovarti. Il tuo corpo gridava, e tu ti ci nascondevi dietro. La tua intelligenza era sfuggente e acuta, la tua profondità a volte spiazzante. Avevi tanti interessi, dalla poesia, al cinema, al teatro, amavi Patty Smith, e un po’, lo dicevi anche tu, le assomigliavi. Non era sempre facile avere a che fare con te, entrare davvero in connessione. E a volte era necessario anche prendere le distanze. Oggi me ne dispiace, ma allora non potevo fare altrimenti.
Ci frequentavamo principalmente nell’ambito del Laboratorio e dell’università, ma a volte anche al di fuori. Ricordo che abbiamo passato almeno due giorni interi, nell’appartamento che condividevi con altre studentesse a San Giovanni, a convertire in accenti quelli che nella tua tesi su Leopardi (e chi altri potevi scegliere?) erano apostrofi e a sistemare le note. Diciamocelo, è stato un incubo! Ma alla fine la tesi era bella e l’hai discussa brillantemente. Ricordo quando io e Alessia, in un’estate torrida fiorentina, ci siamo incontrate alla stazione, io venivo da Venezia, lei da Roma, e ci siamo arrampicate su un colle per venire a trovarti in una clinica per disturbi del comportamento alimentare. Ricordo anche una volta, in un bar, in cui ero io quella che aveva bisogno di aiuto e tu ci sei stata per me, anche senza dettagli, ci sei stata e mi hai offerto una cioccolata calda. Ricordo quando dovevo venire a vedere lo spettacolo del gruppo teatrale di cui facevi parte e poi per un altro impegno ho rinunciato. Ti ho lasciato un biglietto. Forse non lo hai mai ricevuto, ma è una delle cose che rimpiango di più quando penso a te. Ti ho poi chiesto scusa, ma continua a dispiacermi. E ricordo l’ultima volta che ci siamo viste, nell’estate del 2004, pochi mesi prima dell’incidente, quando ti sono venuta a trovare a Gaeta, a casa dei tuoi. Ero tornata da poco da Utrecht, dove ero andata a seguire un corso di Women’s Studies e a rimettere insieme un po’ di cocci, e mi accingevo a partire per gli Stati Uniti per qualche mese. Tu stavi progettando un dottorato in Germania con una ricerca su Ingeborg Bachmann, e aspettavi di sapere se ti avrebbero dato una borsa di studio. Ti sei fatta prestare una bicicletta anche per me e mi hai portato su e giù per Gaeta, sotto il sole, a farmi vedere i tuoi luoghi, il tuo mondo, alla fine fatto di cose semplici. Tua madre diceva preoccupata “sfida i camion!”… ma tu eri contenta. Volavi su quelle due ruote, e io, che non sono mai stata particolarmente atletica, ti venivo dietro arrancando un po’. Ricordo la tua stanzetta minuscola, che tu chiamavi scherzando “il mio loculo”, ricordo tua madre che mi chiedeva se avevi mangiato la mozzarella. Ricordo i coniglietti che mi hai portato a vedere in campagna da tua nonna. Poi, poche settimane dopo, sono partita.
Ero nella meravigliosa Houghton library di Harvard. Avevo tra le mani il libretto scritto da una speziale del Cinquecento, su cui avrei lavorato parecchi anni dopo. Dopo pochi giorni sarei partita per Roma per 15 giorni per sostenere il colloquio per ottenere una borsa di studio di specializzazione all’estero che mi sarebbe servita per finanziare parte del mio dottorato. Mi arrivò un messaggio “non guardare l’email, dobbiamo parlarti”. I ricordi si confondono, ma so che sono tornata a casa per ricevere una telefonata. Mi hanno detto che eri stata investita a Gaeta mentre andavi in bicicletta ed eri in coma. Le speranze erano minime. Ho poi guardato l’email. Solo lì ho avuto modo di realizzare davvero quello che stava succedendo e sono riuscita a piangere, impotente e distante. Per come sono fatta io, alla fine, forse era il mezzo migliore… ma non biasimo chi ha cercato di proteggermi, di parlarmi con una voce amica, era la cosa più ovvia da fare».
«In nome di quello che era il mio ideale, credevo di diventare una donna di puro spirito, ma mi sbagliavo: gli angeli non hanno corpo e non hanno voce, nessuno può udirli, loro parlano col silenzio, e così sono diventata muta, mentre il mio corpo continua a gridare»
«Pochi giorni prima era stato il tuo compleanno. Eri uscita a cena con le donne del Laboratorio e ti avevano regalato, ironia della sorte, L’assassino cieco di Margaret Atwood, “quel maledetto libro” come lo definì tua madre in una delle telefonate che seguirono. Eri contenta. Se la memoria non m’inganna avevi vinto anche un dottorato senza borsa a Roma e dovevi decidere cosa fare. Forse saresti andata in Germania però, perché poco dopo la tua morte, arrivò a tua madre una telefonata in tedesco in cui si parlava di “stipendium” e a cui tua madre seppe rispondere “Anna Rita… kaputt”. Chissà cosa avresti detto? Mi sono sempre chiesta fino a che punto hai sfidato la vita, in un momento in cui finalmente tanti desideri si stavano avverando. Preferisco pensare a un brutto scherzo del destino, più che a una tragedia annunciata, ma la tua vita era stata tutta una sfida ed è legittimo chiedersi se sarebbe successo in un altro modo prima o poi. Avrei preferito che fosse la vita a vincere.
In quella confusione di emozioni e cose pratiche da sbrigare, sono riuscita a essere presente al tuo funerale. Non era ovvio. Non so se sarei potuta tornare apposta. Poche settimane dopo, quando ero già tornata oltreoceano, è morta mia nonna e non sono potuta rientrare in Italia per salutarla. Sono grata di aver potuto essere presente. Non amo i funerali, le parole dei preti mi fanno andare il sangue al cervello, ma non esserci avrebbe lasciato troppe cose in sospeso. Siamo arrivate in ritardo, in macchina. La chiesa era gremita, stavamo fuori. Ricordo la tua bara bianca, ricordo il loculo dove ti hanno infilata, ricordo la sosta catartica al mare e a comprare la mozzarella durante il viaggio di ritorno, ricordo tua madre in preda alla disperazione che mi veniva incontro al cimitero dicendo “dall’America è tornata”. Sarei tornata comunque e avrei voluto trovarti viva. Ci saresti dovuta essere anche tu a quel colloquio per la borsa di studio. Rimbomba ancora nella mia testa la voce di chi facendo l’appello continuava a chiamarti, finché non l’abbiamo messo a tacere. Forse l’avremmo vinta entrambe, forse no, ma nel vincerla mi sono sentita investita di una responsabilità maggiore.
Nei giorni seguenti mi è stato chiesto da tua madre di andare a mettere da parte alcune delle tue cose. Le tue coinquiline avevano già sistemato tutto, ma bisognava trovare il disegno della “donna albero” che avevi fatto in clinica e i diari. Una parte di me si chiedeva cosa avresti voluto farne tu di quei pezzi di te, ma mi sono limitata a fare quello che mi ero stato chiesto. Ero con Valentina. Non è stato facile, ma toccare con mano la perdita è stato comunque liberatorio.
Rileggere oggi quello che scrivevi vent’anni fa su DWF fa venire i brividi:
Mi sono resa conto che se la parola tace ‘la donna’, è perché il suo corpo parla di lei e per lei, anche se con lei spesso mai, e nel mio caso specifico ho voluto ridimensionare un corpo che parlava troppo, ed ho iniziato a conferire solo alla mia voce la facoltà di esprimermi, per potermi dire, pensare. In nome di quello che era il mio ideale, credevo di diventare una donna di puro spirito, ma mi sbagliavo: gli angeli non hanno corpo e non hanno voce, nessuno può udirli, loro parlano col silenzio, e così sono diventata muta, mentre il mio corpo continua a gridare un dolore che non riesco a sentire.
La consapevolezza di te che avevi era spiazzante. Mi chiedo spesso come saresti oggi se fossi riuscita a perdere la battaglia che avevi intrapreso con te stessa e con la vita e a trovare dei compromessi, se quel maledetto giorno avessi avuto un casco e chi guidava fosse stato più attento. Avresti avuto tanto da dire. Parlare di te è sempre complicato, cara Anna Rita. Trovare le parole per ricordarti non è un’operazione scontata. Dedicarti il Laboratorio, però, è stata una bella idea, perché ci ha permesso di non trasformarti in un non detto, in un’assenza, in un angelo muto, in un’immagine di dolore minacciosa e assordante. Sei lì, a ricordarci con il tuo nome che sei passata su questa terra, che il Laboratorio è quello che è oggi anche grazie al tuo passaggio e che, anche se la vita va avanti freneticamente, nomade e bellissima, tu ci sei sempre nella nostra memoria. Ma solo un nome non basta, e per questo ho provato, maldestramente, a registrare i ricordi che ho di te, a cercare di restituirti una presenza e una voce. È arrivato il momento». (Eleonora Carinci)